CONTAGIO DA CORONAVIRUS E TUTELE INAIL

Sommario:  1. Premesse; 2. Garanzie e tutele offerte in generale dall’Inail; 3. Tre quesiti in concreto sulle tutele Inail in caso di coronavirus

  1. Premesse.

In epoca di pandemia da coronavirus Covid-19, ci si può chiedere se e quali siano le tutele offerte dall’Inail ai soggetti che abbiano contratto il virus a causa del loro lavoro (tipicamente, i lavoratori del comparto sanitario) o in occasione del loro lavoro (ad esempio, i lavoratori del comparto alimentare, si pensi ai cassieri dei supermercati, o dei trasporti, si pensi agli autisti degli autobus, cioè in genere i lavorativi dei settori che non hanno subito i provvedimenti interdittivi o restrittivi del Governo).

A questi interrogativi offre un’ampia risposta l’art. 42, secondo comma, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 del (“Cura Italia”), ai sensi del quale: “Nei casi accertati di infezione da Coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.

  1. Garanzie e tutele offerte in generale dall’Inail.

In via generale, l’Inail eroga prestazioni economiche e socio-sanitarie ai lavoratori subordinati, parasubordinati e a certe condizioni autonomi, nonché ad altre specifiche categorie di soggetti equiparati (ad esempio gli studenti e le casalinghe, non invece i liberi professionisti), sia italiani che stranieri, sia regolari che “in nero”, che per causa violenta – concentrata  nel tempo ed esterna all’organismo del lavoratore – in occasione di lavoro abbiano subito un infortunio (art. 2 T.U. n. 1124/65) oppure che nell’esercizio – protratto nel tempo – e a causa delle lavorazioni esercitate abbiano contratto una malattia professionale (dell’art. 3 T.U.  n. 1124/65), e ciò in genere indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro abbia pagato o meno i premi assicurativi (ossia i cosiddetti contributi) e indipendentemente anche da chi sia il responsabile dell’infortunio o della malattia e anzi anche qualora responsabile ne sia il lavoratore stesso (tranne il caso di rischio cosiddetto “elettivo”, che si ha quando l’infortunio o la malattia siano stati provocati da una condotta del lavoratore assolutamente arbitraria e sconsiderata, cioè del tutto estranea ed aliena al lavoro che gli era richiesto), fermo restando comunque il diritto del lavoratore vittima dell’infortuno o della malattia professionale al risarcimento del danno differenziale (ossia del danno o della parte di danno non indennizzato dall’Inail) da parte di chi ne sia responsabile civile per aver violato le norme di sicurezza sul lavoro.

Giova ricordare sinteticamente, per completezza, che le prestazioni economiche e socio-sanitarie erogate dall’Inail, ai sensi del T.U. n. 1124/65 e del d.lgs. n. 38/2000, al lavoratore vittima di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale sono le seguenti:

  • indennità giornaliera per inabilità temporanea assoluta (ossia quella che impedisce totalmente e di fatto di attendere al lavoro) , che viene corrisposta dal quarto giorno successivo alla data dell’evento fino alla cessazione del periodo di inabilità temporanea assoluta ed è rapportata in percentuale alla retribuzione media del lavoratore;
  • indennizzo in capitale per la lesione dell’integrità psicofisica (danno biologico), con postumi permanente compresi tra il 6% e il 15%;
  • indennizzo in rendita, di cui una quota per danno biologico ed una quota aggiuntiva per le conseguenze patrimoniali della menomazione,  per lesioni con postumi permanenti compresi tra il 16% e il 100%;
  • assegno funerario e rendita ai superstiti di lavoratori vittime di infortunio o malattia professionale;
  • prestazioni sanitarie gratuite (esenti da ticket) per cure mediche e chirurgiche, erogate a carico del Servizio sanitario nazionale, compresi gli accertamenti clinici, per terapie farmacologiche, per cure integrative e riabilitative, per protesi e per attività medico-legali;
  • interventi socio-sanitari di sostegno per il reinserimento nella vita di relazione (ad esempio, strumenti per il superamento di barriere architettoniche, installazione di dispositivi domotici, fornitura di comandi speciali e adattamenti di veicoli) e per il reinserimento lavorativo (ad esempio, corsi di formazione).
  1. Tre quesiti in concreto sulle tutele Inail in caso di contagio da coronavirus: a) Il contagio da Covid-19 è da considerare, ai sensi e per gli effetti della tutela Inail, un infortunio o una malattia professionale?; b) Come va provato che il contagio è stato causato o occasionato dal lavoro di chi ne è stato colpito e va quindi indennizzato dall’Inail?; c) Che cosa accade quando il lavoro sia stato una semplice concausa del contagio da coronavirus  e questo sia stato una semplice concausa del danno subito dal lavoratore?

Se questa è la disciplina generale, rapportandola al contagio da Covid-19 e alla disciplina per questo prevista dal citato art. 42 del d.l. “Cura Italia”, per sapere quali siano le tutele previdenziali garantite dall’Inail vanno dunque risolti i seguenti ulteriori interrogativi. 

a – Il contagio da Covid-19 è da considerare, ai sensi e per gli effetti della tutela Inail, un infortunio o una malattia professionale? 

La questione non è solo teorica e astratta ma al contrario è rilevante in concreto perché, come detto, la malattia professionale, per essere indennizzata dall’Inail deve essere stata direttamente causata dalle lavorazioni esercitate (art. 3 T.U. n. 1124/65), mentre perché sia indennizzato l’infortunio basta che questo sia accaduto per causa violenta in occasione di lavoro (art. 2 T.U. n. 1124/65). 

Ebbene, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è consolidata da tempo (tra le tante, v. Cass., 3.11.1982, n. 5764; Cass., 19.7.1991, n. 8058; Cass., 13.3.1992, n. 3090; Cass., 27.6.1998, n. 6390; Cass., 1.6.2000, n. 7306; Cass., 28.10.2004, n. 20941) nel ritenere che l’infezione di virus o batteri che alteri la salute del lavoratore costituisca “causa violenta” ai sensi della normativa Inail, per cui l’evento va considerato quale infortunio sul lavoro (si parla anche, al proposito, di “malattia-infortunio”); nello stesso senso, peraltro, si sono pronunciate anche svariate Circolari dell’Inail degli anni Novanta in tema di epatite virale e di AIDS, nonché da ultimo l’Istruzione operativa Inail del 17 marzo 2020  in tema appunto di contagi da Covid-19, la quale ha ulteriormente confermato che la malattia da Coronavirus, contratta nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, è tutelata a tutti gli effetti come infortunio sul lavoro.

Di conseguenza, tanto il contagio che ha colpito il personale sanitario, quanto quello che ha colpito i lavoratori di altri comparti, vanno qualificati e trattati ai fini Inail come infortuni sul lavoro e non come malattie professionali, con maggior vantaggio per i lavoratori in quanto, come detto, tale qualificazione consente una più ampia tutela, se non altro perché così l’Inail interviene non solo nelle ipotesi in cui il lavoro sia stato la causa del contagio (come avverrebbe, ai sensi dell’art. 3 T.U. n. 1124/65, se si trattasse di malattia professionale), ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice occasione (v. art. 2 T.U. n.1124/65) ed inoltre perché così viene tutelato anche il lavoratore che abbia contratto l’infezione “in itinere”, ossia andando e tornando dal lavoro (se si trattasse di malattia professionale, invece, tale evento sarebbe escluso dalla tutela, in ragione dell’assenza della causa lavorativa in senso stretto di cui all’art. 3 T.U. n. 1124/65; in tal senso, v. Cass., 9.10.2013, n. 22974).

b – Come va provato che il contagio è stato causato o occasionato dal lavoro di chi ne è stato colpito e va quindi indennizzato dall’Inail? 

Premesso che l’esistenza della patologia ai fini della tutela previdenziale può ritenersi accertata non solo dall’esito positivo del tampone faringeo (che costituisce la prova più certa dell’infezione ma nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, non viene somministrato a tutti gli ammalati), ma anche in base a presunzioni gravi, precise e concordanti quali possono essere ad esempio quelle fornite dai sintomi manifestati, dalla specifica professione (es. operatore sanitario) o dalla peculiarità delle mansioni (es., commesso di supermercato) e dalla diffusione del virus nel territorio, le stesse presunzioni possono venire in soccorso anche ai fini della prova la prova del rapporto tra il lavoro e il contagio per gli operatori sanitari e la prova del nesso eziologico tra specifica prestazione lavorativa e patologia da Coronavirus per i lavoratori che non operano nel settore sanitario.

Difatti, una volta accertata l’esistenza della patologia da Covid-19, almeno perchi opera in ambienti sanitari, come ospedali, cliniche, ambulatori medici o farmacie, deve comunque valere la presunzione della sussistenza del rapporto causale tra la stessa e il lavoro, anche quando l’identificazione delle specifiche cause lavorative del contagio si presenti problematica; ciò in adesione al principio secondo il quale, sebbene alcune infezioni si possano contrarre anche in condizioni estranee al lavoro, per quei lavoratori che operano in un determinato ambiente e che sono adibiti a specifiche mansioni, con una ripetuta e consistente esposizione ad un particolare rischio, la presunzione dell’origine lavorativa è così grave da raggiungere quasi la certezza (in tal senso, si esprime lo stesso Inail nelle “Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie” del 1° dicembre 1998”, pag. 5 s.).

Del resto, possono essere considerate risolutive a questo proposito le istruzioni fornite a suo tempo dall’Inail con i provvedimenti sopra citati in tema di epatite virale e AIDS, coerenti con le sentenza della Cassazione pure citate: in particolare, l’Istituto, sin dagli anni Novanta, ha chiarito che per il personale sanitario, inteso in senso lato, ai fini dell’accertamento del nesso tra il lavoro e le malattie infettive e parassitarie, ivi comprese le epatiti virali, l’AIDS e, quindi, sicuramente, anche l’infezione da Coronavirus, è senz’altro legittimo il ricorso a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.

Per quanto riguarda, poi, i lavoratori che non operano nel settore sanitario, essi meritano tutela non solo quando il lavoro rappresenti la causa del contagio (come pure potrebbe verificarsi), ma anche quando contraggano la patologia da Coronavirus in occasione di lavoro (trattandosi appunto – come si è detto – di infortunio sul lavoro), purché dimostrino l’esistenza della patologia e il contatto con persone ammalate in ambiente lavorativo; il problema, per questi soggetti, è rappresentato piuttosto dalla minore forza riconosciuta alla presunzione di sussistenza del nesso eziologico con l’attività lavorativa rispetto a quanto avviene per gli operatori sanitari: tuttavia, la maggiore difficoltà di avvalersi delle presunzioni non impedisce agli interessati di far comunque riferimento alla specificità delle mansioni e del lavoro svolto, alla diffusione del virus nella località o nell’azienda dove sono stati costretti ad operare e agli altri fatti noti dai quali sia possibile trarre presunzioni gravi, precise e concordanti, ai fini della prova presuntiva del rapporto causale o, meglio, di occasionalità della patologia da Covid-19 con l’attività protetta.

c – Che cosa accade quando il lavoro sia stato una semplice concausa del contagio da coronavirus  e questo sia stato una semplice concausa del danno subito dal lavoratore?

Come si è già visto, la patologia da Covid-19 viene tutelata come infortunio e, quindi, rilevando appunto anche la mera occasione di lavoro, in forza dell’art. 2 T.U. n. 1124/65, sarà nuovamente un problema di prova e, ancora una volta, si dovrà probabilmente ricorrere esclusivamente a presunzioni (es. uso di mezzi pubblici affollati in zona ad alto rischio), salvo che, per esempio, non si dimostri di aver dovuto viaggiare con un compagno di lavoro, precedentemente infettato dal virus.

A ogni modo, il fatto che la malattia da Coronavirus provochi le conseguenze più significative soprattutto in persone che già soffrono di altre patologie importanti o comunque molto anziane, sicché  il virus è spesso una semplice concausa del danno, è in buona sostanza irrilevante, dato che è pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dalla regola dell’equivalenza delle condizioni, sicché va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, anche soltanto quale fattore accelerante (cfr., tra le tante, Cass. 7.11.2018, n. 28454; Cass. 19.6.2014, n. 13959; Cass. 21.1.1998, n. 535).

Pertanto, in conclusione, sempre fatte salve le eventuali difficoltà di prova, tali circostanze non precludono né limitano la tutela Inail.

CORONAVIRUS E ATTIVITÀ PROFESSIONALI

Sommario:  1. Premesse; 2. Impossibilità temporanea e parziale ovvero impossibilità permanente e assoluta della prestazione professionale; le relative conseguenze: sospensione del rapporto, risoluzione o recesso; 3. Le attività professionali continuative.

  1. Premesse.

Anche le attività professionali possono risentire degli effetti negativi del Covid-19, in quanto:

  1. il professionista incaricato potrebbe trovarsi nell’impossibilità di svolgere la propria prestazione (impossibilità che può derivare, ad esempio, dai provvedimenti governativi che hanno limitato gli spostamenti e in genere il movimento delle persone, imponendo inoltre il loro distanziamento sociale, oppure dallo stato di malattia o quarantena o isolamento del professionista); oppure
  2. la prestazione professionale potrebbe diventare inutile, a causa della sopravvenuta irrealizzabilità dello scopo per cui le parti avevano contrattato (ad esempio, la progettazione di uno stand fieristico laddove la fiera sia stata annullata sempre in ragione delle norme sul distanziamento sociale); oppure
  3. le prestazioni a carico dell’una e dell’altra parte (ossia l’attività professionale e il pagamento del corrispettivo) potrebbero diventare tra loro sproporzionate o squilibrate nel loro valore “reale”, rispetto a quanto era stato originariamente convenuto, a causa delle circostanze conseguenti al diffondersi della pandemia.

Ebbene, la regola generale è che, nel rapporto di lavoro autonomo qual è solitamente quello professionale, il rischio grava in linea di principio sul prestatore d’opera (professionista), con la conseguenza che chi si impegna a compiere un’opera o fornire un servizio si assume il rischio di non poterla compiere (o che il suo “guadagno” perda valore) per cause che esulano dalla propria sfera d’azione: non a caso, l’assunzione del rischio rappresenta uno degli indici maggiormente rappresentativi del rapporto d’opera professionale e, in genere, del lavoro autonomo.

  1. Impossibilità temporanea e parziale ovvero permanente e assoluta della prestazione professionale; le relative conseguenze: sospensione del rapporto, risoluzione o recesso.

In generale, trattandosi di contratti a prestazioni corrispettive,  le dette circostanze determinano l’impossibilità sopravvenuta della prestazione (ovvero del raggiungimento dello scopo del contratto) o l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione a carico dell’una o dell’altra parte, il che comporta (qualora l’impossibilità e/o inutilità sopravvenuta siano permanenti e assolute) la risoluzione del contratto, con la conseguenza che questo si scioglie e che la parte onerata della prestazione divenuta impossibile o inutile o eccessivamente onerosa non è più tenuta ad eseguirla e che l’altra parte non è più tenuta a pagarne il prezzo e ha anzi diritto alla sua restituzione, se l’ha già pagato (artt. 1463 e 1467 c.c.).

Ciò posto in termini generali, è però necessario considerare il caso concreto, sia perché la disciplina di ciascun tipo contrattuale può contenere norme specifiche, sia perché la regolamentazione contrattuale adottata tra le parti potrebbe avere concordato previsioni particolari, sia ancora perché, più in generale, è di volta in volta possibile che l’emergenza coronavirus determini un’impossibilità di svolgere la prestazione professionale (o la sua “inutilità”, nel senso suddetto di irrealizzabilità dello scopo) parziale anziché totale o temporanea anziché permanente, con la conseguenza che i contraenti possono evitare la risoluzione e mantenere in vita il contratto concordandone una modifica nel senso della riduzione e/o rinvio della prestazione professionale ovvero della riduzione del compenso (artt. 1464 e 1467, terzo comma, c.c.).

Ebbene, immaginando dunque che l’impossibilità sia solo temporanea (perché è prevedibile o almeno auspicabile che l’emergenza sanitaria termini, così come la vigenza dei conseguenti provvedimenti governativi), può sostenersi che in tal caso il contratto sia semplicemente “sospeso”, nel senso che il committente (cliente) non potrà pretendere l’esecuzione finché perdura la detta impossibilità e il prestatore d’opera (professionista) dunque non sarà tenuto a nessun risarcimento per il ritardo nell’esecuzione dell’opera.

Si può del resto anche immaginare che l’impossibilità in questione sia solo parziale (sia perché il lavoro professionale può generalmente svolgersi “a distanza” e con modalità smart working, sia perché l’Allegato 1 del DPCM 23 marzo 2020 ha comunque stabilito che, tra le attività “non sospese” per l’emergenza coronavirus, rientrino anche, a titolo di esempio, le attività legali e contabili, nonché le attività degli studi di architettura e di ingegneria): in tal caso, dunque, il professionista sarà obbligato ad eseguire la propria prestazione e il cliente sarà obbligato a pagarlo.

In entrambe le ipotesi, si ripete, resta però ferma, sia per il committente che per il professionista, la possibilità:

  1. di risolvere il contratto per impossibilità sopravenuta ex art. 1463 c.c., qualora ne sussistano la condizioni di impossibilità totale (ad esempio, perché qualora ai fini dell’esecuzione del suo lavoro il professionista debba necessariamente recarsi in studio e/o azienda e/o cantiere e ciò non gli sia consentito a causa dei provvedimenti dell’Autorità pubblica) e permanente, ovvero qualora le parti non abbiano intesse alla sua esecuzione parziale o “rinviata” nel tempo (ma, in tal caso, l’altra parte potrà evitare la risoluzione proponendo una diminuzione della prestazione rimasta possibile, ex art. 1464 c.c.): in tal caso, il professionista ha comunque diritto ad avere un compenso per il lavoro prestato, in proporzione all’utilità per il cliente della parte dell’opera compiuta, ex art. 2228 c.c.;
  2. di risolvere il contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., qualora a causa del “verificarsi dell’avvenimento straordinario ed imprevedibile” senza dubbio costituito dall’emergenza coronavirus, la sua prestazione sia diventata eccessivamente “squilibrata” o “sproporzionata” rispetto alla controprestazione a carico della controparte (ma, ugualmente, l’altra parte potrà evitare la risoluzione proponendo una diminuzione della prestazione rimasta possibile, ex art. 1467, terzo comma, c.c.): anche in tal caso, il professionista ha comunque diritto ad avere un compenso per il lavoro prestato, in proporzione all’utilità per il cliente della parte dell’opera compiuta, ex art. 2228 c.c.;
  3. di recedere dal contratto ex artt. 2227 e 2237 c.c. (possibilità che va riconosciuta al cliente ma anche al professionista, rappresentando l’emergenza coronavirus una “giusta causa” ex art. 2237, secondo comma, c.c., con la precisazione però che il suo recesso deve comunque avvenire “in modo da evitare pregiudizio al cliente” ex art. 2237, terzo comma, c.c.): in tal caso, il professionista ha diritto al rimborso delle spese sostenute e al compenso per l’opera professionale eventualmente già svolta, che va però rapportato, nel solo caso di suo recesso, non solo e non tanto all’opera svolta (com’è invece nel caso di recesso del cliente), ma anche e soprattutto all’utilità che ne abbia tratto il cliente e al valore del risultato  da questi ottenuto; al riguardo, si ricorda che anche in caso di impossibilità sopravvenuta nel contratto d’appalto, all’appaltatore spetta ex art. 1672 c.c. un  compenso per l’opera svolta, rapportato però non solo all’utilità che il committente ne abbia conseguito (come abbiamo appena visto essere nel caso di contratto d’opera e d’opera professionale), ma anche al prezzo pattuito per l’opera intera.
  1. Le attività professionali continuative.

Pare poi opportuno distinguere, tra le attività professionali, quelle che non consistono nel compimento di una singola opera specifica e, diremmo, puntuale, ma piuttosto nello svolgimento di un “servizio” (ad esempio, una generale consulenza) continuativo o comunque duraturo, prolungato o ripetuto nel tempo, con o senza previsione di un termine finale, determinando così in buona sostanza una sorta di collaborazione coordinata e continuativa a favore del committente.

In questi casi, premesso che gli obblighi previsti dal d.lgs. n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trovano applicazione anche in riferimento ai lavoratori autonomi che svolgano l’attività nell’ambito dell’organizzazione del committente, occorre infatti chiedersi se l’eventuale sospensione delle attività di quest’ultimo possa legittimare la sospensione del rapporto e con quali conseguenze sul piano del compenso dei primi.

Ebbene, trattandosi come detto di una sorta di collaborazione coordinata e continuativa svolta nell’ambito dell’organizzazione aziendale del committente, sembra corretto sostenere che tale questione vada affrontata come quella analoga che può porsi in riferimento al rapporto di lavoro subordinato (sebbene, nel caso di lavoro libero professionale o in genere autonomo, non sia possibile il ricorso agli strumenti previdenziali, come ad esempio la Cassa integrazione, previsti a sostegno del lavoratore dipendente).

Occorre quindi distinguere le diverse possibili ipotesi:

  1. se la prestazione può essere svolta a distanza, non può parlarsi di impossibilità assoluta e dunque la prestazione potrà essere resa, con diritto del professionista al corrispettivo;
  2. se la prestazione non può essere svolta a distanza, ma richiede la presenza in azienda (e/o cantiere) ed essa è impraticabile, occorre verificare:
  3. se ci si trova in un’ipotesi di impossibilità oggettiva, non imputabile ad alcuna delle parti (ma, ad esempio, conseguente ai provvedimenti restrittivi del Governo o altra Autorità pubblica), nel qual caso si avrà sospensione di entrambe le obbligazioni, cioè sia di quella del professionista di compiere l’opera o il servizio, sia di quella del cliente di pagargli il compenso, salva la possibilità di risoluzione (ex artt. 1463 e 1467 c.c.) e di recesso (ex artt. 1464, 2227 e 2237 c.c.) già viste in precedenza;
  4. se la situazione sia imputabile al committente (che decida unilateralmente di sospendere le attività senza esservi tenuto), nel qual caso il prestatore d’opera avrà diritto al compenso;
  5. se l’impossibilità di rendere la prestazione dipende da cause inerenti al prestatore (quali, ad esempio, una condizione di malattia ovvero l’obbligo di isolamento domiciliare che renda impraticabile la continuazione dell’attività), nel qual caso deve ritenersi che il rischio gravi sul lavoratore, che non potrà rivendicare il diritto al compenso (salvo il diritto di valersi di sostituti ex art. 2232 c.c.) né ad altre forme di tutela indennitaria (salvo che questo sia previsto dallo specifico contratto): l’unica tutela, in questo frangente, è infatti rappresentata dall’art. 14 della legge n. 81 del 2017, che prevede che la malattia del lavoratore autonomo che presti la propria attività per il committente in via continuativa non comporta l’estinzione del rapporto, la cui esecuzione può essere sospesa su richiesta del lavoratore, senza diritto al corrispettivo e per un periodo non superiore a 150 giorni, salvo che il committente non provi di non avere interesse alla permanenza del rapporto.

In ogni caso, fuori del caso di impossibilità, il recesso ante tempus del cliente comporterà l’obbligo di risarcire il collaboratore libero professionista del mancato guadagno sino alla scadenza del contratto, mentre in caso di rapporto a tempo indeterminato sarà possibile recedere solo con congruo preavviso ex art. 3 della citata legge n. 81 del 2017.

In tutte queste ipotesi, peraltro, occorre rammentare che se la prestazione diventa solo parzialmente impossibile, potrà trovare applicazione la disciplina codicistica in materia di impossibilità parziale (art. 1464 c.c.) e le parti potranno convenire una riduzione della prestazione e del corrispettivo, mentre potranno recedere dal contratto solo se non vi è alcun interesse all’adempimento parziale.

In ogni caso, correttezza e buona fede dovrebbero imporre a tutte le parti approcci cautelativi e volti a consentire, magari previa rinegoziazione, la conservazione del rapporto.

CORONAVIRUS E CONTRATTO D’AGENZIA

Come per tutti i rapporti di durata, anche il contratto di agenzia può ovviamente risentire degli effetti negativi del Covid-19.

Ad oggi, nei provvedimenti presi dal Governo per fronteggiare l’emergenza, per questi contratti non è stata emanata alcuna previsione espressa.

Risulta tuttavia ad essi applicabile quanto previsto in generale dall’art. 91 del decreto 18/2020 (Cura Italia): “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”

Vi è da dire che, a ben guardare, questa disposizione ha un mero valore rafforzativo e confermativo delle disposizioni già presenti nel nostro ordinamento, come evidente dal richiamo diretto all’art. 1218 c.c.

In materia di inadempimento contrattuale, si deve rilevare che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea, il debitore non è responsabile del ritardo nell’adempimento.

E’ altresì pacifico che, tra le cause invocabili ai fini della “impossibilità” della prestazione, rientrano gli ordini o i divieti sopravvenuti con provvedimenti legislativi o amministrativi dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione indipendentemente dal comportamento colpevole dell’obbligato.

In sintesi, si tratta di circostanze che fungono da esimente della responsabilità del debitore, a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere.

Ad ogni buon conto e con specifico riferimento al contratto di agenzia, la valenza della previsione di cui all’art. 91 del decreto Cura Italia è duplice: da un lato, all’agente non potrà essere imputata la condotta inadempiente per non avere visitato la clientela o promosso le vendite, e ciò non solo qualora la  preponente abbia visto impedita la propria attività in forza dei provvedimenti restrittivi del Governo, ma anche nel caso in cui tale attività sia stata impedita o fortemente limitata rispetto alla clientela prevista nel contratto.

Da un altro punto di vista, però, va considerato che la situazione di grave carenza di liquidità che si viene inevitabilmente a creare in capo a moltissime imprese in seguito alla sospensione della attività o anche solo alla sua riduzione (o comunque la grande riduzione del fatturato), comporta che anche l’inadempimento delle preponente alle proprie obbligazioni nei confronti dell’agente – fondamentalmente, il pagamento delle provvigioni e dei compensi previsti – potrebbe rientrare nella “esclusione della responsabilità” del debitore.

Ciò ovviamente assume rilevanza diversa a seconda del fatto che l’agente percepisca esclusivamente provvigioni sul fatturato generato dalle vendite promosse o gli siano invece garantiti cospicui compensi minimi o elevati rimborsi forfetari fissi.

E’ evidente che nel primo caso sarà molto difficile per le imprese sottrarsi al pagamento del dovuto, mentre nel secondo caso potrà essere invocata non solo la straordinarietà della situazione, tale da rendere “giustificabile” l’inadempimento, ma potrà anche essere invocato una altro istituto generale presente nel nostro ordinamento, ovvero l’ “eccessiva onerosità sopravvenuta”.

L’art. 1467 c.c., infatti, dispone che “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Quindi, mentre è sempre possibile (ed invero, auspicabile) che in una situazione imprevedibile e straordinaria come quella prodotta dalle conseguenze del dilagare del Covid-19, le parti del contratto di agenzia concordino consensualmente una sospensione della efficacia del contratto o una temporanea diversa definizione degli accordi economici sottostanti, è del pari ragionevolmente possibile per la preponente (qualora le singole situazioni concrete lo consentano) proporre unilateralmente la riduzione della propria prestazione economica invocando l’eccessiva onerosità sopravvenuta, facendo valere, in caso di mancata accettazione, la risoluzione del contratto,

L’offerta di riduzione è infatti rivolta a ristabilire l’equilibrio contrattuale, compromesso dall’eccessiva onerosità imputabile a cause imprevedibili e straordinarie.

Se la proposta di riduzione viene accettata, il contratto verrà modificato per il futuro, evitando il suo scioglimento.

Ovviamente, l’effetto della risoluzione non si estenderebbe alle prestazioni eseguite, che sono fatte salve. In tutte queste ipotesi, peraltro, occorre rammentare che se la prestazione diventa solo parzialmente impossibile, potrà trovare applicazione la disciplina codicistica in materia di impossibilità parziale (art. 1464 c.c.); anche in questo caso le parti potranno convenire una riduzione della prestazione e del corrispettivo, mentre potranno recedere dal contratto solo se non vi è alcun interesse all’adempimento parziale.

In ogni caso, correttezza e buona fede dovrebbero imporre a tutte le parti approcci cautelativi e volti a consentire, magari previa rinegoziazione, la conservazione del rapporto.

Infine, alcuni utili annotazioni in merito alle provvidenze ed agevolazioni previste per gli agenti di commercio dal decreto Cura Italia in questa situazione di emergenza.

  • Gli agenti di commercio possono accedere al Bonus di 600 euro per il mese di marzo 2020, previsto per i commercianti, artigiani e lavoratori autonomi?

Dopo averlo in un primo tempo escluso, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sul proprio sito, scrive ora che anche gli agenti di commercio sono inclusi nella platea dell’articolo 28 del Cura Italia, ovvero che anch’essi hanno diritto al Bonus di 600 euro.

Gli agenti di commercio, a differenza di altri lavoratori autonomi iscritti alle casse professionali private (che sono i soggetti erogatori delle relative indennità) sono tuttavia ricompresi nei beneficiari diretti dell’articolo 28 e riceveranno l’indennità non da Enasarco ma dall’INPS.

L’INPS, con circolare del 30 marzo 2020 n. 49, ha confermato l’indennizzo anche per gli agenti e rappresentanti: l’importo di 600 euro verrà erogato dallo stesso istituto, previa richiesta in via telematica, a partire dal 1 aprile 2020. Non è previsto nessun limite di reddito o dimostrazione di calo di fatturato.

Si attendono provvedimenti anche per il mese di aprile.

  • Gli agenti di commercio (operanti in forma individuale) possono accedere alla sospensione del pagamento delle rate del mutuo per l’acquisto della prima casa?

Sì, il Governo ha esteso l’accesso anche che ai lavoratori autonomi ed ai liberi professionisti che autocertifichino ai sensi degli articoli 46 e 47 DPR 445/2000 di aver registrato, in un trimestre successivo al 21 febbraio 2020 ovvero nel minor lasso di tempo intercorrente tra la data della domanda e la predetta data, un calo del proprio fatturato superiore al 33% del fatturato dell’ultimo trimestre 2019 in conseguenza della chiusura o della restrizione della propria attività operata in attuazione delle disposizioni adottate dall’autorità competente per l’emergenza coronavirus. Per accedere alla sospensione del pagamento delle rate non è necessario produrre l’Isee.

  • Sono previste agevolazioni per gli agenti di commercio operanti in forma di microimprese o piccole imprese?

Sì, il Governo ha previsto specifiche misure per le microimprese e le piccole e medie imprese che hanno contratto prestiti o linee di credito da banche o da altri intermediari finanziari (attraverso il rafforzamento del Fondo di garanzia per le PMI).

Per tali finanziamenti la misura predisposta dal Governo dispone che:

a) le linee di credito accordate «sino a revoca» e i finanziamenti accordati a fronte di anticipi su crediti non possono essere revocati fino alla data del 30 settembre 2020;

b) la restituzione dei prestiti non rateali con scadenza anteriore al 30 settembre 2020 è rinviata fino alla stessa data alle stesse condizioni e con modalità tali che non risultino ulteriori oneri né per gli intermediari né per le imprese;

c) il pagamento delle rate di prestiti con scadenza anteriore al 30 settembre 2020 è riscadenzato sulla base degli accordi tra le parti o, in ogni caso, sospeso almeno fino al 30 settembre 2020, secondo modalità che assicurino la continuità degli elementi accessori dei crediti oggetto della misura e non prevedano, dal punto di vista attuariale, nuovi o maggiori oneri per entrambe le parti.

d) è avviata una linea per la liquidità immediata (fino a 3.000 euro) con accesso senza valutazione, che si affianca alle garanzie già attive senza valutazione sul microcredito e sui finanziamenti di importo ridotto fino a 20.000 euro.

La misura si rivolge alle imprese che hanno subito in via temporanea carenze di liquidità per effetto dell’epidemia, che tuttavia non impatta in maniera significativa sulla loro capacità di adempiere alle proprie obbligazioni. Le imprese sono tenute ad autocertificare di aver subito in via temporanea carenze di liquidità quale conseguenza diretta della diffusione dell’epidemia Covid-19.

  • Il Fondo PMI può essere utilizzato anche dagli agenti?

Si, anche gli agenti operanti in forma individuale possono accedere al Fondo PMI per ricevere una garanzia, gratuita e senza valutazione, per nuovi finanziamenti fino a fino a 3.000 euro e per un periodo massimo di 18 mesi. Per accedere alla garanzia è sufficiente una dichiarazione autocertificata ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000 con la quale si dichiara che la propria attività sia stata danneggiata dall’emergenza Covid-19.